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GIULIA. Assai bene avete provato, per quel che a me ne paia, che la donna anzi al non amante, che all'amante debba esser cortese de' favori, con qual artificio io non so, ma qualunque egli sia, da voi a vostro danno non mi pare stato usato: ma sebben mi sovviene delle cose da voi dette, si ritrovano pur alcuni amanti giudiciosi, e temperati, e questi vorre'io sapere se tanto di male alle loro amate donne desiderano, quanto gli altri, che da voi sono stati descritti.

GIULIO. Tutti gli altri, se non m'inganno, sono infermi, e niun animo infermo può esser temperante; ma come nell'infermità del corpo alcuni dagli appetiti si lascian vincere, onde spesso si adirano e co' serventi, e co'medici, ed oltre il comandamento loro mangiano quei cibi, che più lor piacciono, e beono quante volte voglia lor viene, altri assai meno dagli appetiti sogliono lasciarsi trasportare, ondei medici ascoltano volentieri, e co' famigliari ragionano mansuetamente: ma peravventura alcuno non è, che o nel bere, o nel prender il cibo, ed il sonno, alquanto la regola de' medici non trapassi, così degli amanti alcuni dall'appetito concupiscibile, e dagli altri affetti senz'alcuna resistenza si lascia vincere, altri resistono, ma pur son vinti: ma chi gli affetti superi non si ritrova, o se pur si ritrova, non è amante; che se gli amanti tutti dagli affetti non fossero vinti, indarno i Poeti avrebbon finto, che Amore di lor trionfasse, ed il trionfo d'Amore segue non ch' altri colui, del qual si legge :

Tacendo, amando, quasi a morte corse:

E' l'amor forza, ed il tacer virtude:

il quale, benchè facesse ad Amor lunga resistenza, nondimeno, con gli altri vinti d'Amore, segue il suo trionfo. Quegli dunque amanti giudiciosi son detti, e temperanti, i quali o meglio l' amor sanno coprire, o più modestamente nianifestarlo; e questi tenperanti non sono, tutto che tali sian detti, ma men degli altri sono incontinenti.

GIULIA. E questi amanti meno incontinenti desiderano essi male alle donne?

GIULIO. Certo, se ben` della donna è la pudicizia e l'onestà, e male l'impudicizia, o la disonestà, lor desiderano

auzi male, che bene, nondimeno nè vergogna lor desiderano, nè disonore; e perchè il disonore, e la vergogna consistono nelle opinioni degli uomini, molto secreti sogliono esser ne❜lor amori, e pensosi, e taciti, e solitarj si veggiono il più delle volte :

Solo, e pensoso i più deserti campi

Vo misurando a passi tardi, e lenti;

così cantò quel Poeta (in quel sonetto) che più d'alcun altro mai dell'onor della sua donna fu desideroso, il quale non potendo nasconder l'amor suo con onor della sua donna, si sforzò di manifestarlo, onde altro non mostrava di amare che la bellezza dell'animo, e quella del corpo soltanto quanto degli occhi può esser obietto, come si legge L'aer percosso da' lor dolci rai

S' infiamma d'onestade, e tal diventa,
Che 'l dir nostro, e 'l pensier vince d'assai.
Basso desir non è, ch'ivi si senta,

Ma d'onor, di virtute. Or quando mai
Fu per somma beltà vil voglia spenta ?

Ed in quell'altro:

L'un vive ecco d'odor là su 'l gran fiume,
Io qui di foco, e lume

Queto i frali, e famelici miei spirti :

nondimeno alcuna fiata a sè stesso contradicendo, e non ben sapendo ogni suo amoroso desiderio ricoprire, dice: Con lei foss' io da che si parte il Sole

Sol una notte, e mai non fosse l' Alba,
E non ci vedess' altri che le stelle:

ed altrove:

Pigmalion, quanto lodar ti dei
Dell'immagine tua, se mille volte
N'avesti quel, ch' i’sol una vorrei!

Comunque sia, perchè il più delle volte assai modesto amante si mostrò, l'amor suo senza vergogna della sua donna manifestò, e gli amanti sì fatti, se sono conosciuti, sono assai volentieri sopportati. Questi stessi nondimeno tanto, e non più dell'amor delle donne loro sogliono esser desiderosi, quanto essi par che in alcun modo ne siano cagione; onde i Poeti del grido d'onestà, per lo quale le

240 IL CAV. AMANTE E LA GENT. AMATA donne loro sono gloriose, si compiacciono assai volte, come di effetto dell'arte loro, nè solo i Poeti, ma i Cavalieri eziandio, e gli altri amanti, tuttochè bramino di vedere le loro onorate, nondimeno desiderano che ciò avvenga per opera loro; onde a questi amanti ancora, men liberali de' lor favori debbono esser le donne, che a' non amanti, che bene lor vogliono; e tanto in questo proposito voglio che mi giovi d'aver detto, non per far alcun risentimento della repulsa datami, mą perchè altra fiata per difetto di benevolenza, o di stima, non mi reputiate indegno di favorire .

GIULIA. Se io son tale, ch' altrui possa far favore, non lo desidererebbe da me indarno il Signor Giulio; ma se benevolenza in amor alcuna fiata suol convertirsi, guardisi il Signor Giulio di non dare nell' amante, che non so se fussse de' più continenti; ma se meco converserà, a niun pericolo d'amore, per quel ch'io ne creda, s'esporrà; ma ove se con altra più di me bella avesse dimestichezza, assai agevolmente potrebbe avvenire che i molti favori convertissero la benevolenza in amore.

FICINO

OVVERO

DELL'ARTE

DIALOGO

ARGOMENTO

Marsilio Ficino, che dà il nome al presente dialogo, fiorì in

e

Firenze nella seconda metà del secolo XV., e fu assai chiaro filosofo. Egli è qui introdotto con Cristoforo Landino, Toscano anche esso, e valente letterato di quel tempo, a favellare intorno all'Arte, ond' ha il suo soggetto il ragionamento. Si principia dal cercare che cosa sia Arte, e che Natura, e questa in che differente dalla mala e dalla peggior Natura, che è la materia. Si dice appresso che la Forma è la miglior Natura. Si mostra quali dell' arti sieno incerte, quali certe. Si stabilisce la definizione dell' Arte e della Natura, e si toccano le differenze dell' una e dell' altra. Si dichiara che la Natura opera con artificio, con magistero e con ragione: ch' essa è la volontà e la ragione divina; che è costantissima nell' operare: e che opera prima all' idea, e l' Arte dopo lei. Si aggiunge che la Natura imita l'Arte divina e non l'umana, e ch' essa è l' Arte di Dio. Si determina poi che la peggior Natura, che è la materia, dee obbedire all' umano intelletto, il quale ha da contender seco e vincerla ove possa; ma non già colla Forma, nè colle Forme, se non con le peggiori. Si dice ancora che il nostro intelletto dee imitare l'intelletto divino, col quale congiungendosi, divien felice; e che questa sua Arte è poi quella che chiamasi scienza o sapienza. Si vien quindi alla distinzione dell' Arte e della Scienza, e si reca la distinzione de gli abiti fatta da Aristotele nell' Etica, conchiudendo che l' Arte non è di quelle cose, che si fanno per natura o necessariamente. Si dimostra che l'Arte è anche nelle azioni, non altrimenti che la prudenza, e che la prudenza è pure nell' arti, e che anzi è Arte. Si afferma che nell' Arte esattissima ha luogo il consiglio; e che l'Arte è prima nell' intelletto divino, e poi nella Natura. Si parla delle cau se esemplari, che sono nella mente, delle idee e delle forme artificia li; e si conchiude che l' Arte è più antica delle stesse cose artificiali. Si passa finalmente a dire che il piacere dell'imparare, dovrebbe esser fine dell' Arte ; e si accenna come l' Arti, nate e trovate per necessità dagli uomini, si accrebbero per piacere, per utilità e per onoDialoghi. T. I.

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re; e le più nobili per memoria, per gloria e per ornamento delle città. Si avverte per ultimo ch' esse debbon essere dirizzate in maniera che il loro fine sia quello di servire al fine della divina Filosofia, che è il sapere, col quale è sempre congiunto il diletto.

Il Serassi, nella vita del Tasso, dal vedere che l'Autore non introduce in questo Dialogo persone di sua conoscenza come negli altri, e dal riscontrare in esso una quasi servile imitazione di Platone (*), conghiettura che venisse da lui composto in età giovanile, e forse nell' anno 1566, che era il ventesimosecondo dell' età sua. Il primo a pubblicarlo colle stampe (lo che avvenne nel 1666) fu il dottissimo Marc' Antonio Foppa, che ne possedeva una copia con aggiunte e correzioni fatte di propria mano del Tasso : ed in Napoli, non ha molt' anni, se ne conservava il manoscritto originale presso i PP. Cappuccini del Convento detto della SS. Concezione.

LANDINO.

INTERLOCUTORI

CRISTOFANO LANDINO, MARSILIO FICINO

Che cosa è arte, o dottissimo Ficino?

FICINO. È certa ragione.

LANDINO. E la natura, qual cosa diremo ch'ella sia? FICINO. Ragione similmente.

LANDINO, Dunque certa similmente.

FICINO. Così estimo; perch' essendo l'arte imitazione della natura, non può essere alcuna certezza nell'arte, che non sia prima nella natura : oltre a ciò, come voi sapete da Cicerone, e da Boezio, e dagli altri Latini, l'una, e l'altra è annoverata nelle cause costanti, come quelle, che operano per lo più.

LANDINO. Io credeva che la certezza consistesse nell'operar sempre in un istesso modo. Laonde la natura operando per lo più nell'istessa guisa, non par che si possa chiamar certa; nè so immaginarmi che sia alcuna certezza nei diluvj, ne' terremoti, ne' tuoni, ne' fulmini, nelle tempeste, e ne' venti, e nell'altre cose così fatte, le quali son pure operazioni della natura.

(*) Il Foppa riconosce bensì nel presente Dialogo molte cose parte imitate, e parte trasportate da que' di Platone, al quale specialmente, cosi in questo, come negli altri suoi Dialoghi, procurò Torquato di assomigliarsi ; ma non già quella imitazione servile di che parla il sopraccitato Biografo.

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