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due, e fermandoci poi nella dignità, ci sforzeremo di far giudice la ragione dell' autorità, in modo, ch'ella non isdegni di esser giudicata.

ANTONIO. Per quel ch'io ne creda, i Legisti, che degli altri son guidici, qui all'altrui giudizio saranno sottoposti: ma parlando della nobiltà civile, aspetto che pienamente trattiate tutto ciò, che alla legittimazione, ed all' adozione appartiene.

AGOSTINO. Questo per sè stesso è necessario, ed io il farò tanto più volentieri, quanto io veggio, che voi con maggior desiderio l'aspettate.

ANTONIO. Il ragionamento di oggi è fornito quasi col dì; onde per non vi aggravar maggiormente per ora, sarà bene di far punto, e riserbare il restante ad un altro giorno, ch' essendo voi libero in queste vacanze di Carnevale dalle pubbliche lezioni, non vi dee mancar tempo da dispensare, e trattenervi ragionando con gli amici. Verrò dunque forse domani a trovarvi a casa, e frattanto mi ritirerò qui dalla Signora Marchesa, dove intendo esservi ragunate molte Gentildonne e Cavalieri, per dover questa sera festeggiare.

AGOSTINO. Andate e venite quando vi sarà in grado, che ozioso, o ufficioso che io sia, mi troverete sempre prontissimo per soddisfarvi. Addio.

OVVERO

DELLA NOBILTÀ

DIALOGO

ARGOMENTO

It presente Dialogo, di cui sono interlocutori Antonio Forno ed 4

gostino Bucci, ha per soggetto la Nobiltà. Cercasi in esso primamente se la nobiltà sia. Si vien poscia a investigare quel che ella sia, considerando due volte diligentemente il genere della definizione e le differenze: e si passa per ultimo a ragionare de' titoli, i quali si danno alla nobiltà per significazione di onore .

Non facciamo un più lungo cenno del contenuto di questo colloquio, imperocchè non essendo esso altro che il precedente riformato e corretto, all' argomento di quello, ove desideri maggiori lumi, può il lettore rivolgersi. Gioverà qui nondimeno il notare che al tutto diversa e molto più convenevole alla gravità del soggetto è l'introduzion del presente. Diversa pure in qualche parte è la definizione della nobiltà, che ove nel primo si diceva essere virtù di schiatta onorata per antica e continuata chiarezza, viene in questo definita virtù di schiatta conosciuta per molte e continuate operazioni. La difesa poi di quel luogo censurato di Virgilio che accennammo nel detto argomento, quivi non appare: ma molto più estesa di prima la materia de' titoli, e vi è anzi trattata per modo, che può riguardarsi come cosa affatto nuova. Altre piccole varietà si riscontrano fra questi due dialoghi; ma siccome non cambian elleno punto nè la sostanza, nè l'ordine del ragionamento, che sono gli stessi in amendue, così stimiamo inutile il farne parola.

Al primo di essi pose mano l'Autore verso la fine dell'anno 1578, mentre stava in Torino presso il Marchese Filippo d'Este, come si ricava da una sua lettera a Maurizio Cattaneo segretario del Cardinale Albano, e suo amicissimo. Venuto nell'anno dopo a Ferrara, e chiuso indi a poco nello Spedal di S. Anna, quantunque infermo ed oppresso da continue inquietudini, ivi lo proseguì, e condusse a termine. Non fu però pubblicato colle stampe che nel me. se di giugno del 1581: lo che avvenne in Vicenza per opera di Lodovico Botonio letterato Perugino, a cui n'era avventurosamente capitata una copia, tratta forse da quella che il Tasso medesima nella primavera del detto anno aveva donata al principe di Mantova D. Vincenzo Gonzaga, allorchè fu a visitarlo nella sua prigione. Torquato tuttavia pochissimo soddisfatto di cotal dialogo, per

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ciocchè, com' ei dice, lo aveva scritto tumultuariamente, e riempinto di molte cose, che non erano proprie dell' assunta materia, diedesi alcun tempo dopo a riformarlo, e fece di esso il presente, che poi nelle nozze di D. Cesare d'Este con D. Virginia de' Medici, le quali seguirono nel carnovale del 1586, indirizzò a Scipione Gonzaga, e che venne finalmente stampato per la prima volta in Venezia nell' anno appresso sotto il titolo di Forno Secondo. Il qual titolo quanto mal si convenga a questo dialogo avuto rispetto alla materia, essendochè fa supporre esser egli una continuazione dell'altro, laddove non è più che una medesima cosa, per ciò che pur ora abbiamo toccato, può di leggieri conoscersi. Ond'è che noi per ovviare sì fatto errore, in cui anche il Serassi, scrittore per altro diligentissimo della vita del Tasso, è caduto, abbiamo stimato bene d'intitolarlo semplicemente della Nobiltà, che è il solo nome, col quale dallo stesso autor nostro vien mentovato nelle sue lettere.

INTERLOCUTORI

ANTONIO FORNO, AGOSTINO BUCCF

ANTONIO. A che avete conosciuto che que' Franzesi, i quali sono oggi venuti alle vostre scuole, siano vicini agli Inglesi o ai Fiaminghi?

mi par

AGOSTINO. Al colore delle carni e de'capelli, il quale. simile in coloro, che abitano appresso l'Oceano. ANTONIO. Io non tanto da' sembianti raccolgo che sian più d'una che di altra nazione, quanto che siano nobili, perchè veramente l'aria del viso è molto gentile; e l'argomento della bianchezza delle carni, e della biondezza dei capelli peravventura è fallace: perchè non solo i Bretoni, e i Normandi, e i Piccardi ho veduti bianchissimi: ma Provenzali eziandio, i quali son posti sovra il Mare Mediterraneo, e risguardano il Mezzogiorno; laonde dovrebbero essere anzi bruni, che no.

AGOSTINO. Io non voglio negare che molti Provenzali. non possano esser bianchi come i Bretoni, nondimeno universalmente son più bruni, o per meglio dire, meno bianchi: perchè il color bruno propriamente è quello della nazione Spagnuola e dell' Italiana, nella quale non è men grazioso, che il bianco de' Tedeschi e de' Franzesi, che talora ho veduto ne' vostri paesi, di cui mi pare che si possa dire: Vergine bruna i begli occhi e le chiome;

ma tutto quello ancora, che della bellezza delle donne suol esser detto da' poeti.

ANTONIO. In questa regione gli uomini e le donne ei nascono assai bianchi, ed in ciò noi siamo simili a' Galli Cisalpini, ed a' Longobardi, ed agli altri popoli, da' quali derivarono, ma il colore bruno è più ordinario in quella parte d'Italia, che è posta oltre l'Appennino: ma come questi argomenti sogliono spesse volte esser fallaci, così c'ingannano quelli della bellezza.

AGOSTINO. Non solamente dalla beltà, ma dalle maniere e dall'aria per così dire, del viso, sogliono fare argomento di nobiltà; quantunque chi ben considera facilmente conosce quest'aria del viso essere la bellezza, di cui fu detto:

E l'aria del bel viso meno oscura;

o piuttosto aria del viso è quella, che dalla beltà è illustrata, a differeaza dell'altre, come l'aria luminosa dall'oscura: e chiamo beltà quel raggio interiore che traluce per gli occhi ne'sembianti; onde avviene rade volte che gl'ignobili da' nobili all'aria del viso non siano riconosciuti: nè solo dalla virtù, ma dalla beltà si può argomentare la nobiltà, come fece Didone innamorata d' Enea dicendo:

Quem sese oreferens! quam fortis pectore, et armis! ANTONIO. Didone fu peravventura persuasa più dalla bellezza, che dalla gloria delle cose fatte, che Enea fosse figliuolo di Venere, perchè più la bellezza che la fortezza parea conveniente ad un figliuolo di Venere; ma io non cerco quello che ad una donna innamorata si possa persuadere, ma quello che sia vero in sè stesso, perchè se gli eloquenti fossero belli, non solamente l'avrebbe potuto persuadere Ulisse a Circe, ma Cicerone alla sorella di Clodio, o pure il Boccaccio alla vedova, dalla quale fu bef◄

fato.

AGOSTINO. Nulla di falso gli avrebbe persuaso, perchè siccome nel volto risplende un raggio della beltà dell'animo, così l'altra parte si manifesta nelle parole: però di Socrate si legge, che disse ad un bel giovane, Parlami, se vuoi che io ti veda.

ANTONIO. E Socrate avrebbe potuto persuadere ad Alcibiade di esser bello?

AGOSTINO. Egli in guisa gliele persuase, che niuna donna prestò maggior fede all'amante, onde, sebbene vi ricordate, Alcibiade racconta ne' conviti ch'egli pregò Socrate, che volesse cambiar seco bellezza; ma il cambio fu disprezzato dal casto filosofo per alterezza.

ANTONIO. Socrate nondimeno aveva il volto come quello, che si dipinge ne' Satiri e ne' Sileni, ed usava quelle parole, che sono in bacca del calzolajo, e del . . . . . colle quali se egli persuadesse Alcibiade o no, sasselo quella notte che ricoperse il lor ragionamento; ma non persuase egli il popolo Ateniese; e se la medesima maniera di eloquenza ch'egli usava, fosse stata usata da Ulisse co' Principi della Grecia non avrebbe conseguito il suo fine: ma il raccontare le cose prudentemente, e con singolar fortezza in guerra adoperate, il mostrare le ferite del suo petto, il ridurre agl' Iddii non meno la nobiltà paterna, che la materna, gli recarono la desiderata vittoria, ma non l'avrebbe già potuta avere al giudicio di Elena, se con Paride avesse conteso: e se Circe avesse dopo lui veduto Ajace, così da quel nuovo amore sarebbe stata presa, come fu poi Alcina da quel di Ruggiero: ma io credo che Socrate ed Ulisse, non tanto per alcuna eloquenza persuadessero, quanto per alcuna arte incantassero, non che altri, l'incantatore medesimo.

AGOSTINO. L'eloquenza di Socrate non fu popolare come era quella di Gorgia e di altri Sofisti del suo tempo ;e quello, che voi chiamate incanto, fu senza fallo la virtù dell'eloquenza istessa.

ANTONIO. Se gli argomenti di Socrate son buoni, Socrate non fu buono, ma se non bene argomentò, popolare fu la sua eloquenza.

AGOSTINO. E che male insegnò? o quando egli non bene argomentò ?

ANTONIO. Argomentò da' figliuoli di Temistocle e di Pericle, che i padri non sapessero l'arte civile, o non la volessero insegnare, perchè a' figliuoli loro medesimi la. avrebbero insegnata: in quella medesima guisa io contro lui argomento ch'egli o non l'intendesse, o la volesse manifestare altrimenti, perchè Alcibiade tanto da lui amato non l'apprese; se non la seppe insegnare, fu ignorante, se

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